martedì 15 novembre 2016

San Pellegrino in Alpe, il paese di undici anime conteso fra Emilia e Toscana

Gli abitanti di San Pellegrino in Alpe devono fare tutto doppio: dalle pratiche burocratiche alle poste. Ma qui la crisi non si sente.


Un caffè? Venga al bancone: glielo servo in Toscana, ma per pagare, per favore, torni qui in Emilia, alla cassa». Bastano pochi passi per accontentare l’oste, ma soprattutto per cambiare Regione.

San Pellegrino in Alpe è una grande storia di mini frontiera. A quota 1525, è il borgo più alto degli Appennini e dei suoi record va fiero. Ha meno di 20 stalli per il posteggio: la metà ricade in Garfagnana, il resto nel modenese. In effetti, più che un punto geografico, questo è un luogo dell’anima, come scriveva il poeta Umberto Monti. Chi passa da qui non arriva per caso e, se resta, lo fa per scelta.

Per conferme, chiedere ai suoi 11 abitanti divisi fra due famiglie, i Lunardi e i Maier, le uniche a vivere qui tutto l’anno, lontano dalle lusinghe delle provincie di Modena e Lucca che si spartiscono, ancora oggi, quest’angolo di mondo. Con mille, meravigliosi sdoppiamenti: devi fare dei lavori? Occorre presentare una doppia “Dia”, la dichiarazione d’inizio lavori, ai due Comuni cui il borgo appartiene. Da una parte Frassinoro l’emiliano a 21 km, dall’altra Castiglione in Garfagnana, 18 km di tornanti più in basso. Aspetti una lettera? Potrebbe arrivare da uno dei due versanti del monte, grazie a due gentilissime portalettere che risalgono ai giorni alterni il valico.
A risalire il passo per primo fu, però nel VII d.C Pellegrino che decise di fermarsi qui: non era ancora santo, ma figlio del re di Scozia che venne a far l’eremita fra questi boschi, sopra ed intorno al passo delle Radici, al parco del Frignano e al monte Cusna.
Allora come oggi la vegetazione è così fitta da prender il nome di selva. Che per lui non fu mai oscura ma «romanesca», come la denominò proprio Pellegrino, dai molti pellegrini diretti a Roma che vi facevano tappa. Su quella che oggi è la tortuosa Sp 234, passava la via Bibulca, un’autostrada per il Medioevo, dato che vi potevano passare ben due buoi. Pellegrino, però, era un tipo schivo: ben prima di San Francesco, alla compagnia degli uomini, preferiva quella degli animali. Visse a lungo in una caverna, poi nel tronco scavato di un faggio.
Oggi riposa in un’urna di marmo e cristallo, accanto al fido compagno San Bianco. Ma il suo sonno eterno, all’inizio, fu disturbato, proprio per via di quell’alpe contesa a metà. Il suo corpo fu issato su un carro e due torelli, tirando ora verso l’Emilia, ora in Toscana, stabilirono come sarebbe stato sepolto. Con le gambe in Emilia e la testa in Toscana. Dove oggi ancora in molti, salgono per pregarlo, affidandogli le proprie ansie vergate su bigliettini di varie fogge.

«Life on Mars», c’è vita su Marte di David Bowie, gracchia dalla radio che pare avere sempre la colonna sonora giusta: «Pellegrini ce ne sono molti d’estate – spiega Marcello Maier – .
Dopo arrivano fungaioli, cacciatori, amanti delle ciaspole da neve e poi tantissimi motociclisti. Soli non restiamo mai». Papà, altoatesino, trapiantato prima a Bologna e poi quassù per amore della mamma, nata su queste colline.
La cucina del ristorante ha appena chiuso: è tempo di una briscola con qualche avventore. «Non ce ne andiamo perché l’albergo è nostro», spiega Marcello. Basta abituarsi. Lui fin da piccolo faceva ogni giorno 3 km a piedi fino all’autobus che lo portava a scuola a Castiglione. «Ma mi sento più emiliano», scandisce con un accento che più toscano non si può. Potenza dei libri e del crinale. E del lavoro che quassù, nonostante la crisi, ha tenuto le persone ancora attaccate al territorio.
A Frassinoro l’industria della ceramica ha ridotto, ma non cessato, la produzione, a Pievepelago c’è la Beghelli e una fabbrica metallurgica; in Garfagnana resiste un distretto di cartiere.

«Dove non manca mai il lavoro è in questa chiesa», allargano le braccia Graziella Di Giulio e Piero Picchi. Loro sono angeli e custodi dell’ospizio di San Pellegrino in Alpe.
Lui bada al negozio, lei «anche a tutto il resto». La chiesa originale è del 1100 e una crepa su un altare laterale li impensierisce.
Al sopralluogo è arrivato anche il vicario generale della Diocesi di Lucca, Monsignor Michelangelo Giannotti: «Queste realtà, piccole e suggestive, vanno custodite». L’architetto sale la scala, esamina le strutture e tranquillizza. Perché qui se c’è un problema, è di tutti. Lo sanno bene Graziella e Piero. Loro vengono da Altopascio.
Una volta in pensione han deciso di trasferirsi qui, lavorando per la canonica. D’estate per 5 mesi, d’inverno da pendolari. C’è tanto da fare: due messe al giorno da servire, il negozio, il museo etnografico. Poi le feste: dal Ferragosto quando un tempo c’era il mercato, alla motomessa di giugno con benedizione di migliaia di motard, fino al 1° agosto la grande festa di San Pellegrino. Allora si sostituisce la grande croce di faggio, simbolo del santo.


La gente attraversa il robusto voltone in pietra che d’inverno, con la sua galleria e il suo pozzo fanno da scudo al vento e alle intemperie del valico e sono il cuore pulsante di questo borgo millenario.
Fuori, sulla collina sospesa sull’infinito, ognuno si prende un frammento di croce vecchia e si da il benvenuto a quella nuova. «La devozione è grande: ogni giorno puoi raccogliere una storia di disperazione o speranza, basta ascoltare », dicono i coniugi Picchi.
A fine agosto è arrivato il nuovo parroco che, però, si divide con un altro eremo in Garfagnana. Le spese vanno centellinate: «Quest’anno abbiamo raccolto molte meno offerte e ci sarebbe anche da sistemare l’organo », spiega Graziella. Le battaglie non la spaventano: quando, negli scorsi anni, si diffuse la voce che si voleva chiudere il santuario, fu lei a chiamare la stampa. Quando però i custodi tornano a valle, al santuario pensa Pacetto, al secolo «Lunardi Marchi Pacifico», scandisce lui.
Dopo Pellegrino, in fondo è lui la vera istituzione del borgo. Con le sue oltre 80 primavere e una storia di famiglia che risale al 1224 e al duca D’Este, è la memoria storica del borgo. I suoi figli mandano avanti l’albergo con ristorante, ma al bar, dall’altro lato della via, pensa ancora lui: negli anni 50 fu costruita una piccola galleria sotto la strada per non dover uscire all’aperto. Fuori romba un Tir. L’autista scende: «Lo vede? – sbircia Pacetto dalle tendine di pizzo -. Bisogna che qualcuno resti qui, perché c’è sempre un Pellegrino che passa».

Lucia Galli (ilGiornale.it)

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